27 OTTOBRE 2019 Domenica, 30a Settimana del Tempo Ordinario  

Anno C

 
Sir 35,15b-17.20-22a
Sal 34,2-3.17-19.23
2Tm 4,6-8.16-18
Lc 18,9-14

L’insegnamento del saggio Ben Sira, erede della millenaria dottrina pro- fetica della giustizia e dell’amore preferenziale di Dio per i poveri e gli op- pressi, ci conduce ai vertici della vera spiritualità biblica. Il Deuteronomio ha avvertito che Dio «non usa parzialità e non accetta regali» (Dt 10,17), contrariamente agli uomini, che fanno favoritismi in base a pregiudizi so- ciali, razziali o ideologici, danneggiando la vita degli umili. Questa dottrina sarà ampiamente applicata da Gesù nella sua prassi di predicazione e di liberazione, così come dagli apostoli e dagli evangelisti, che la registrarono nei loro scritti e la diffusero universalmente. Dio, nella sua infinita mise- ricordia, non manca mai all’incontro con tutti coloro che, consapevoli dei propri difetti e debolezze, cercano il suo aiuto e il suo perdono. I superbi, invece, li lascia vagare confusi nei fieri pensieri dei loro cuori.

La parabola che Gesù ha raccontato a proposito del pubblicano e del fariseo mostra il suo modo di vedere le persone, che è la forma corretta dello sguardo di Dio, perché non giudica dalle apparenze, e nemmeno in base ai pregiudizi, ma da ciò che vede con chiarezza nelle profondità del cuore umano, discernendo la vera motivazione che genera le azioni e le preghiere delle persone.

In effetti, la dichiarazione del saggio Ben Sira, secondo cui Dio non fa preferenze sulle persone, la incontriamo per la prima volta sulla bocca degli avversari di Gesù che, per quanto stessero complottando contro di Lui, hanno dovuto riconoscere pubblicamente la sua perfetta integrità morale, dicendo: «Maestro, sappiamo che parli e insegni con rettitudine e non guar- di in faccia a nessuno, ma insegni qual è la via di Dio secondo verità» (Lc 20,21; cfr. Mt 22,16). Questo è il cammino di Dio, che Gesù ha praticato e insegnato. È una prassi evidente non solo nel suo avvicinarsi alle persone umili e a coloro che sono esclusi ed emarginati perché giudicati peccatori, come prostitute e pubblicani, o impuri e maledetti, come i lebbrosi, ma che si distingue in tutta la sua azione evangelizzatrice, abbattendo tutte le barriere della discriminazione, sia essa religiosa, sociale o razziale. Gesù, infatti, accetta di ascoltare l’umile richiesta del centurione romano, e va a casa sua per guarire il suo servo. Inoltre, nei suoi continui viaggi come Maestro itinerante, visita la regione dei samaritani e spesso li elogia. An- dando nei territori pagani, raggiunge la regione di Tiro e guarisce la figlia di una donna siro-fenicia. Attraversando l’altro lato del lago di Tiberiade, si avvia verso la Decapoli e cura persone colpite da diverse malattie. Le ripetute traversate del lago di Galilea mostrano la signoria di Gesù sulla realtà simbolicamente significata del mare: egli è in grado di calmare la sua forza minacciosa e camminare sul suo abisso. Il mare terrificante, simbolo negativo, non sviluppa più alcuna funzione di separazione, ma diventa un ponte e, attraverso il ministero di Gesù, realizza la riconciliazione delle due parti: quella ebraica e quella pagana.

Nella sinagoga di Nazareth – dove aveva esposto il programma del suo ministero – Gesù aveva sfidato gli uditori sulla posizione di Israele nei confronti degli altri popoli considerati eletti. In effetti, i presenti avevano reagito negativamente, condannando la sua affermazione sull’adempimen- to delle profezie. Gli esempi di Elia, che fu inviato alla vedova fenicia, ed Eliseo, che guarì il lebbroso siriano Naaman, furono sufficienti per dimostrare che Dio non fa preferenze di persone, ma tutte le creature sono preziose ai suoi occhi. Come dice il salmista: il Signore è molto buono con tutti, la sua tenerezza abbraccia ogni creatura. È vicino a tutti quelli che lo invocano sinceramente. Il salmista non menziona alcuna razza o nazionalità specifica, né lo stato o il colore della pelle. Se l’amore di Dio permea tutte le creature è perché sono tutte opera sua e, quindi, il suo è un amore universale, pieno di cura per tutti gli esseri umani, senza alcuna discriminazione.

Ciò non nega il fatto che Israele sia stato scelto da Dio per entrare in un legame speciale di alleanza con lui. Ma questa elezione era in funzione di una missione specifica a favore di tutti i popoli, a testimonianza della presenza del Dio vivente nella storia come il liberatore degli oppressi e il salvatore dell’essere umano in tutta la sua realtà: «Voi siete i miei testimoni – oracolo del Signore – e il mio servo, che io mi sono scelto, perché mi conosciate e crediate in me e comprendiate che sono io. Prima di me non fu formato alcun dio né dopo ce ne sarà» (Is 43,10). Dio, infatti, non ha solo scelto il suo servo ma lo ha anche costituito e istruito: «Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e ti ho stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre» (Is 42,6-7). Dando uno sguardo più profondo all’insegnamento di Gesù nella parabola del pubblicano e del fariseo nel Tempio, ci accorgiamo che a fare la differenza è proprio ciò che si incontra nel cuore umano messo a nudo dalla presenza di Dio nella preghiera.

Al contrario, il fariseo è prigioniero nella sua torre d’orgoglio spirituale. Troppo consapevole delle proprie opere pie meritevoli e dell’eccellenza della sua classe socio-religiosa, egli si crede superiore e migliore rispetto a tutti gli altri, erigendo barriere tra sé e loro, insultandoli e disprezzandoli. Egli era forse buono e pio fino a quel momento, ma l’atteggiamento mo- strato ha rivelato l’arroganza presente nel suo cuore, minando dall’interno la sua presunta virtù.

Inoltre, non ci si pone di fronte a Dio nel Tempio per autocelebrarsi e contemplarsi in una posa autoreferenziale, guardando gli altri dall’alto in basso. Ci si pone davanti a Lui per un incontro d’amore, e per incontrare gli altri in Lui. In tal senso, la preghiera è contemplazione del Signore, celebrazione delle meraviglie che la sua grazia compie ogni giorno in seno alla fragilità umana, celebrazione della sua instancabile misericordia che rimette in sella colui che è caduto e che desidera rialzarsi.

Ascoltando questa parabola, la tentazione immediata sarebbe quella di mettersi nei panni del pubblicano, semplicemente perché egli occupa un posto positivo. E se anche questo accadesse, sarebbe il segno della subdola mania umana di mettersi a posto la coscienza. D’altra parte, la parabola invita a guardarsi dentro per rimuovere ogni sufficienza e ogni disprezzo per gli altri, al fine di ritrovare un cuore semplice, umile e fraterno che sa posare su sé e sugli altri uno sguardo misericordioso e pieno di speranza. A tale riguardo, è necessario interrogarsi spesso sul modo in cui preghia- mo. Cosa ci rivela sulla profondità e la qualità del nostro cuore? Cosa ci rivela su noi stessi, sulla maniera in cui ci rapportiamo agli altri, in cui li percepiamo spontaneamente in rapporto a noi? Cosa ci rivela del nostro rapporto con Dio e la sua salvezza?

Papa Francesco costantemente ci richiama alla centralità della preghiera in rapporto alla Chiesa e alla sua missione. La preghiera è l’anima della missione: quasi a dire che l’efficacia dell’incontro personale con Cristo, le giuste misure del rapporto con se stessi e con il mondo alla luce del- lo Spirito Santo, stanno alla radice dell’esperienza della verità che salva.

Comunque sia, è con l’intenzione di pregare che il pubblicano e il fariseo si recano al Tempio, ritrovandosi così a condividere per qualche istante lo stesso luogo sacro. Ma il modo particolare in cui ognuno di loro realizzerà questa intenzione è ciò che determinerà il loro rispettivo destino e stato spirituale finale. Il pubblicano, avendo avuto l’umiltà e la sincerità di rico- noscere la sua indegnità e il suo peccato e di implorare il perdono di Dio, torna a casa da uomo migliore, trasformato interiormente, riconciliato: davanti alla sua autentica preghiera, la grazia divina non si è fatta attendere. Ancora una volta, si è verificato che «chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato» (Lc 18,14b).

Il discepolo missionario, grazie alla preghiera, include sempre se stesso nel bisogno di salvezza che è chiamato ad annunciare e nei sacramenti a comunicare. Quel che è certo è che la missione dell’evangelizzazione che ci è affidata in quanto Chiesa non potrebbe essere condotta in verità se adottassimo un atteggiamento dominante nell’incontro con gli altri, sicuri e convinti della nostra superiorità morale e religiosa. La missione deve essere un’umile proposta dell’amicizia di Cristo, nel rispetto infinito della libertà religiosa degli uomini e delle donne della nostra epoca, delle loro culture e della loro storia. Vera umiltà non è mai assenza di verità. È piuttosto presenza efficace di una verità che giudica, perdona e salva chi annuncia e i suoi interlocutori.