21 OTTOBRE 2019 Lunedì, 29a Settimana del Tempo Ordinario  

Feria

 
2Tm 4,10-17b
Sal 145,10-13.17-18
Lc 10,1-9

In questa festa di San Luca, ascoltiamo la lettera di Paolo al suo fidato emissario Timoteo, in cui si lamenta di non avere nessuno con cui viaggia- re, ad eccezione di Luca. Il resoconto di Luca dei suoi viaggi con Paolo è caratterizzato da un repentino cambiamento della narrazione: il cosiddetto “passaggio al Noi” negli Atti degli Apostoli (cfr. At 16,10-17; 20,5-15; 21,1-18; 27,1-28). Fino al versetto 10 del capitolo 16 degli Atti, Luca è rimasto fuori dalla scena, scrivendo in terza persona. Nei versetti da 1 a 9 riferisce dei viaggi di Paolo in Frigia, Galazia, Misia, Bitinia e Troade. Ma a partire dal versetto 10 Luca passa alla narrazione in prima persona plurale: «subito cercammo di partire per la Macedonia ritenendo che Dio ci avesse chiamati ad annunciare loro il Vangelo». Luca sale in barca con Paolo e, attraverso l’arte del racconto, invita il suo pubblico al viaggio missionario.

Luca rivela un dettaglio su se stesso all’inizio del suo Vangelo. Egli scrive che sta riorganizzando gli avvenimenti «che si sono compiuti in mezzo a noi» proprio come li aveva ricevuti da «coloro che ne furono testimoni oculari», ovvero quelli che erano con Gesù fin dall’inizio del suo ministero pubblico (cfr. Lc 1,1-2). In questa frase introduttiva, Luca rivela al suo pubblico che neanche lui è un testimone diretto dei fatti narrati. L’evangelista si unisce alla comunità cristiana emergente grazie alla testimonianza personale di coloro che avevano ascoltato la predicazione di Gesù e avevano assistito di persona alla crocifissione e alla risurrezione.

Matteo (10,1), Marco (6,7) e Luca (9,1) riferiscono del momento in cui Gesù chiamò “i Dodici” e, dopo una serie di istruzioni, li mandò in missione per annunciare la Buona Novella. Ma solo Luca riferisce che più tardi Gesù incaricò questo vasto gruppo di settantadue discepoli di cui leggiamo nel Vangelo di oggi. Secondo Luca, molti più missionari dei soli Dodici furono coinvolti nella prima evangelizzazione. Poco prima di dare questo mandato, Gesù si era diretto verso Gerusalemme (cfr. Lc 9,51). Invia i settantadue a precederlo per annunciare il suo arrivo in varie città. Questo secondo incarico prefigura l’esperienza personale di Luca in viaggio con Paolo.

Con l’invio dei settantadue (o settanta, secondo alcuni manoscritti), l’azione missionaria presso i popoli non soltanto è legittimata, ma antici- pata. Nella tradizione giudaica le nazioni della terra che avevano ascoltato la promulgazione della legge sul Sinai erano in numero di settanta (cfr. Gen 10; Dt 32,8). Ciò significa che i discepoli sono inviati a tutte le genti.

Il brano proclamato nella liturgia odierna presenta l’apostolato come rivelazione del Regno e del giudizio già presenti nel mondo. Per Luca non si tratta di annunciare a Israele la grandezza del Regno, ma di proclamare alle nazioni che esso è vicino. L’evangelista scrive in un momento nel quale già esistono, “in tutte le nazioni”, testimoni del risorto. Questo è il momento decisivo della storia, in cui viene offerta a tutti la possibilità di entrare a far parte del Regno di Dio.

Il metodo di lavoro missionario dei settantadue discepoli, il caratte- re e le prospettive della loro opera, sono simili a quelle dei Dodici. Le raccomandazioni di Gesù si aprono con un invito a prendere coscienza della situazione: abbondanti raccolti e un numero ridotto di lavoratori si oppongono in un contrasto significativo. Da qui la raccomandazione ca- tegorica: «Pregate dunque il padrone della messe». «La preghiera è l’anima della missione» (Lettera di Papa Francesco al Cardinal F. Filoni, 22 ottobre 2017). Dio, che è il proprietario del raccolto, prende l’iniziativa: chiama e invia. È l’invito a unirsi alla preghiera di Gesù, al suo esodo verso il Padre, che si esprime, per i discepoli e per il Signore, nel consegnarsi nelle mani degli uomini: «Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi». I missionari non possono far affidamento sulla forza, sul potere o sulla violenza. Sono ricchi solo della fede e della preghiera che li tiene fondati sul rapporto di amore personale con Gesù, il Maestro che li invia.

La povertà degli inizi diventa il fondamento e il segno della loro libertà e della piena dedizione all’unico compito che li affranca da ogni impedi- mento o ritardo. Tutto ciò è definito con precisione in una serie di norme: liberi da ogni ostacolo, gli inviati puntano direttamente alla meta, senza fermarsi, neppure per il saluto che – come esigeva il costume orientale – avrebbe richiesto molto tempo (cfr. 2Re 4,29). Il vero saluto, al contrario, è riservato ai destinatari della missione. Tale saluto non è una semplice profezia o annuncio, ma una parola efficace, che dà gioia e felicità. In poche parole, è la “pace” messianica, che coincide con la salvezza (cfr. Lc 10,5-6). L’inviato, come il Signore, stabilisce con coloro che lo ricevono una relazione nella quale si inizia a vivere la pace del Regno. Il suo comportamento lo porta a dipendere da coloro che lo accolgono, a cui affida il proprio corpo e la vita stessa. Pertanto, il missionario è completamente esposto, anche per quanto riguarda il suo sostentamento, ai rischi della missione: accoglienza o rifiuto, successo o fallimento. “Casa” e “città” simboleggiano la vita privata e la vita pubblica. L’inviato dipende dall’o- spitalità di chi accoglie il messaggio, ma nulla può fermare od ostacolare il perseguimento della sua missione: è un missionario che porta l’ultimo e urgente appello della possibilità di salvezza, che deve giungere alle orecchie di tutti, ai cuori di tutti, costi quel che costi.