17 OTTOBRE 2019 Giovedì, 28a Settimana del Tempo Ordinario

Memoria di Sant’Ignazio di Antiochia

 

Rm 3,21-30
Sal 130,1b-6ab
Lc 11,47-54

Alla fine della sua presentazione (Rm 1,18-3,20), Paolo fa un’affermazio- ne drammatica: «Giudei e Greci, tutti, sono sotto il dominio del peccato» (Rm 3,9). Stando così le cose, sembra che non vi sia alcuna possibilità di salvezza per nessuno, se si fa affidamento solo sulle capacità umane. Ma Paolo crede che l’intervento del Dio di Gesù Cristo sia in grado di rove- sciare la disperata situazione dell’uomo: «Ora invece [...] si è manifestata la giustizia di Dio» (Rm 3,21). Così Paolo contrappone il potere salvifico di Dio alla schiavitù del peccato. Il potente gesto liberatorio del Padre ha la sua azione nel tempo presente, poiché la sua libera iniziativa ha preso forma storica in Cristo morto e risorto (cfr. Rm 3,24-25; 4,25). Una volta che l’uomo vi aderisce con fede (cfr. Rm 3,22-28.30), la sua esistenza cambia completamente aspetto: è liberato dalla subordinazione al potere del male e della morte (cfr. Rm 3,24) e vive come un fedele compagno di Dio e del prossimo, secondo la logica della solidarietà propria dell’alleanza, cioè come «giusto» (Rm 3,26).

Qui Paolo presenta una teologia totalmente opposta a quella della men- talità del suo tempo. Il giudaismo tardivo aveva ridotto la Legge divina a dominio assoluto, slegandola dalla sua relazione costitutiva e originaria con la storia e con l’alleanza divina, assumendola come valida di per sé. Aveva così sostituito l’obbedienza a Yahweh con la meticolosa e scrupolosa osservanza delle prescrizioni e dei divieti. Con questo modo di pensare si era creato lo spazio per una tronfia autosufficienza dell’uomo davanti al destino della sua vita. La redenzione sulla base di «opere della Legge», tipiche del giudaismo rabbinico, innalza infatti l’uomo sul piedistallo di autocrate religioso, ignaro della grazia divina e autoreferenziale. Da ciò derivava un orientamento settario e discriminatorio che faceva una netta distinzione tra ebrei, conoscitori della Legge e osservanti, e pagani, costi- tuzionalmente votati alla perdizione, perché senza Legge.

L’Apostolo ci presenta una comprensione teologica della giustificazione come alternativa alla dottrina giudaica. Fa appello alla giustizia salvifica di Dio e indica la fede come unica possibilità di redenzione dal dominio del peccato e dal destino della morte eterna. In pratica, Paolo esclude l’immagine severa di un Dio senza misericordia, rivelando il suo vero volto di Padre che, per amore, agisce e interviene in favore dell’umanità peccatrice. Di fronte alla straordinaria iniziativa di Dio, ebrei e pagani sono equiparati: gli uni e gli altri hanno bisogno della salvezza offerta come dono e sono costantemente chiamati alla fede perché entrambi sotto la legge del peccato. In questo processo universalizzante di conversione, Israele viene salvato e riacquista il posto che gli spetta nell’elezione divina (cfr. Rm 9-11). Sarà salvo insieme ai popoli di tutta la terra. L’elezione del popolo diviene segno efficace dell’inizio storico della salvezza per Israeliti e pagani insieme.

«A partire da questa partecipazione al modo di vedere di Gesù, l’apostolo Paolo, nei suoi scritti, ci ha lasciato una descrizione dell’esistenza credente. Colui che crede, nell’accettare il dono della fede, è trasformato in una creatura nuova, riceve un nuovo essere, un essere filiale, diventa figlio nel Figlio. “Abbà, Padre” è la parola più caratteristica dell’esperienza di Gesù, che diventa centro dell’esperienza cristiana (cfr. Rm 8,15). La vita nella fede, in quanto esistenza filiale, è riconoscere il dono originario e radicale che sta alla base dell’esistenza dell’uomo, e può riassumersi nella frase di San Paolo ai Corinzi: “Che cosa possiedi che tu non l’abbia ricevuto?” (1Cor 4,7). Proprio qui si colloca il cuore della polemica di San Paolo con i farisei, la discussione sulla salvezza mediante la fede o mediante le opere della legge. Ciò che San Paolo rifiuta è l’atteggiamento di chi vuole giustificare se stesso davanti a Dio tramite il proprio operare. Costui, anche quando obbedisce ai comandamenti, anche quando compie opere buone, mette al centro se stesso, e non riconosce che l’origine della bontà è Dio. Chi opera così, chi vuole essere fonte della propria giustizia, la vede presto esaurirsi e scopre di non potersi neppure mantenere nella fedeltà alla legge. Si rinchiude, isolandosi dal Signore e dagli altri, e per questo la sua vita si rende vana, le sue opere sterili, come albero lontano dall’acqua. Quando l’uomo pensa che allontanandosi da Dio troverà se stesso, la sua esistenza fallisce (cfr. Lc 15,11-24). L’inizio della salvezza è l’apertura a qualcosa che precede, a un dono originario che afferma la vita e custodisce nell’esistenza. Solo nell’aprirci a quest’origine e nel riconoscerla è possibile essere trasformati, lasciando che la salvezza operi in noi e renda la vita feconda, piena di frutti buoni. La salvezza attraverso la fede consiste nel riconoscere il primato del dono di Dio, come riassume San Paolo: “Per grazia infatti siete stati salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio” (Ef 2,8)» (Lumen Fidei, 19).

Paolo ripropone ai Romani gli orizzonti universali della grazia di Dio, che sono alla base della missione a lui affidata e comunicata alla Chiesa, nata dalla Pasqua di Gesù e inviata al mondo dallo Spirito del Risorto.